Umanizzare la Modernità
Siamo sbarcati in un mondo complesso, globalizzato, in cui tutto è connesso, tutto è in relazione. Questo mondo impone un nuovo paradigma, un nuovo codice comportamentale, un nuovo livello di consapevolezza e di responsabilità agli attori politici. E lo impone in rapporto all’inedito e simultaneo aumento di interdipendenza planetaria e di potenza tecnologica che è prodotto dall’accelerazione dei processi di sviluppo e di globalizzazione, dopo la Seconda guerra mondiale e dopo la caduta del Muro di Berlino.
Questa accelerazione consegna oggi alla politica sfide gigantesche. Queste sfide sono talmente formidabili, talmente multiple e talmente legate fra loro che è difficile diagnosticare il male principale, il pericolo principale, il bene principale. Senz’altro, però, il problema principale è l’intrico di problemi, tutti vitali e mortali, che segna il nostro tempo: quelli della finanziarizzazione dell’economia, del cambiamento climatico, dell’ecologia, della demografia, delle possibili pandemie, dell’escalation di guerre locali…
Ma la politica oggi appare insieme troppo carica di problemi
e troppo svuotata di pensiero,
quantomeno del pensiero
adeguato a comprendere e fronteggiare tali problemi.
La politica si occupa – ed è chiamata a occuparsi – di ciò che vi è di più complesso, di più prezioso, di più urgente. Ma è proprio nella politica che oggi dominano le idee più semplificatrici. La politica, che è l’ambito più complesso di tutti, è dominata dal pensiero meno complesso. È nella sfera politica che hanno il sopravvento il pensiero manicheo, il pensiero chiuso, il pensiero dogmatico, il pensiero fanatico, il tabù, il sacro…
Ora, questa povertà del pensiero politico e la ricchezza delle illusioni della propaganda e della demagogia contribuiscono a gettarci nelle tragedie e nei disastri, e portano all’acutizzarsi di un paradosso che accresce la complessità della condizione contemporanea. Il mondo è diventato complesso non solo nel senso originario del termine – complexus, ciò che è tessuto insieme – ma è diventato complesso anche nel senso che l’unità reca in sé il suo contrario: il pianeta si unifica mentre diviene sempre più frammentato. Tutti comunicano, tutti sono in relazione, tutto esige e potrebbe persino permettere la comprensione, ma, al tempo stesso, l’incomprensione non fa che accrescersi. Tutto è solidale, ma, al tempo stesso, tutto è conflittuale. I mezzi tecnici che hanno permesso di unificare il pianeta sono al tempo stesso quelli che portano con sé le guerre e la possibilità della distruzione. Torna, dopo Hiroshima, dopo la guerra fredda, ad aleggiare lo spettro di una guerra nucleare.
Detto in altri termini: mai abbiamo fatto così l’esperienza di formare una sola umanità. Lo straordinario progresso dei mezzi di trasporto e di comunicazione, specialmente dopo Internet e lo sviluppo dei social media, rinforza ogni giorno questa esperienza orizzontale di un’umanità globale. Mai uno tsunami o un massacro agli antipodi sono sembrati così vicini. Mai l’umanità sofferente è sembrata così vicina all’umanità risparmiata dal dolore. Mai gli individui del mondo intero si sono percepiti così simili emozionalmente e intellettualmente. A questa prossimità affettiva degli esseri umani si aggiunge una comune inquietudine che, essa stessa, “federa” l’umanità. Sappiamo, cioè, che siamo esposti ai medesimi rischi planetari: epidemie, riscaldamento climatico, catastrofe nucleare, esaurimento delle risorse naturali, estinzione delle specie e delle biodiversità, crisi economica mondiale, ecc.
Tuttavia, mentre sembra imporsi nelle esperienze, l’unità dell’umanità sembra arretrare nelle rappresentazioni collettive. Ovunque vediamo diffondersi ripiegamenti identitari: nuovi nazionalismi, nuove xenofobie, nuove radicalità religiose, nuove rivendicazioni comunitarie, ecc.
Alla stessa stregua, avvertiamo, in un mondo interconnesso e interdipendente, l’inconsistenza del vecchio paradigma dei giochi a somma zero (vinco io, perdi tu; vinci tu, perdo io) e la necessità di cooperare di fronte a problemi globali.
E tuttavia questo paradigma torna sostanzialmente a strutturare i rapporti internazionali.
Rispetto a questa situazione paradossale, la politica è il pharmakon, nel senso ambivalente del termine greco antico: è sia il veleno che il possibile rimedio. È il veleno che, con un pensiero semplificatore, illusorio, cinico, cieco, sta alimentando questi fenomeni regressivi e oscurantisti. È il possibile rimedio, a condizione che si nutra di un pensiero complesso.
Innanzitutto, se la politica è il gusto per l’avvenire, come diceva Max Weber, allora la politica deve partire dalla consapevolezza che, giunti a questo stadio storico-evolutivo dell’umanità, questo avvenire sarà planetario o non sarà. Diventa cruciale pensare e vivere la condizione umana inedita del nostro tempo come unità complessa, una e molteplice.
L’accettazione consapevole di questa sfida implica essa stessa un “salto” storico e antropologico.
L’espansione europea moderna nel mondo ha inteso il progressivo sviluppo della civiltà planetaria come legato alla riduzione della diversità fra le società umane e nelle società umane.
Oggi dobbiamo creare un pensiero che sappia concepire il mantenimento, la proliferazione e la coevoluzione delle diversità come garanzie per il buon funzionamento e per l’evoluzione della nostra civiltà, ovvero di una civiltà planetaria, una e molteplice. Possiamo estendere ciò che ebbe modo di osservare Hans-Georg Gadamer: “Una tradizione storica e una consuetudine politica ci fanno apparire come ovvi e naturali i contrasti e le divisioni”, mentre ora, dopo cinque secoli di età planetaria, si tratta di non lasciare silenzioso il nostro “tessuto comune e solidale”.
Adesso, però, dobbiamo estendere questa considerazione: quel tessuto complesso, comune e solidale, inteso come unità non più astratta, ma concreta e multipla, la si può recuperare e cogliere, nel tempo inedito che stiamo vivendo, nel “fatto” emergente di un destino comune planetario.
Una politica che accoglie la sfida della complessità è sicuramente poi una politica “progressista”, ma nel senso che abbandona la credenza nel progresso come una necessità storica, senza tuttavia abbandonare il lavoro per il progresso come compito. E questo compito deve essere, innanzitutto, un compito critico verso quel paradigma tecnocratico che identifica ancora il progresso con la crescita meramente quantitativa o verso quel messianismo legato alle tecnologie emergenti che fa dire a Bill Joy, il guru del mondo hi-tech: “Il futuro non avrà bisogno di noi”, perché le macchine cosiddette intelligenti potranno decidere e creare al posto nostro.
Bisogna smascherare queste mitologie e questi nuovi spettri della semplificazione e della deresponsabilizzazione. Dovremo dare più peso a una ragione che si eserciti più sui fini, sui valori: una ragione che è deperita proprio a causa di un esercizio smisurato e anche aberrante della ragione strumentale.
E se ripartiamo dai valori, e dai valori che segnano l’inizio della modernità – libertà, eguaglianza, fraternità – è proprio il terzo, la fraternità, che può costituire una speranza di progresso.
In un mondo sempre più interdipendente, in un mondo che condivide problemi globali che richiedono un approccio globale, la solidarietà non può essere limitata a un cerchio ristretto di legami parentali o di interessi di comunità chiuse. La solidarietà deve superare le frontiere della nazione, della razza e della religione, e divenire un sentimento di responsabilità globale: non solo in senso spaziale, ma anche temporale, nella misura in cui tale responsabilità si estende a coloro che abiteranno la Terra dopo di noi.
L’attuale crisi è una ‘policrisi’, cioè una crisi che intreccia inestricabilmente fra loro molteplici crisi, che non sono affrontabili separatamente l’una dall’altra. Questa nostra policrisi mostra che la solidarietà e la collaborazione globale sono nell’interesse di tutti, e sono l’unica cosa razionale ed “egoista” da fare, in questo momento.
Questa speranza di progresso, associata all’immaginazione di un futuro sostenibile, è sicuramente alternativa alla palude tragica delle semplificazioni nella quale rischiamo di affogare: alternativa all’immaginario neoliberista o ultraliberista, cinico, individualista, che nega l’interdipendenza tra gli esseri umani e degli esseri umani con gli altri viventi, e che propone come sola prospettiva per gli individui la produzione e il consumo, e che fonda la socialità sulla competizione e sulla manipolazione. Questa speranza di progresso è alternativa a chi contrappone all’universalismo la volontà di organizzare la società insistendo su ciò che separa gli esseri umani, e non su ciò che è loro comune. È alternativa a chi rifiuta l’universalismo, a chi vede nell’universalismo una distruzione delle identità e delle diversità culturali, a chi troppo frettolosamente vede nell’universalismo necessariamente solo la maschera di una volontà di egemonia dell’Occidente.
Una politica che aspiri a creare le condizioni per abitare la complessità del nostro mondo e della nuova inedita condizione umana globale è una politica che si misura con un futuro aperto, e che lascia aperto il futuro, senza predeterminarlo o anticiparlo con un programma ideologico, con l’idea di una società perfetta (abbiamo visto i risultati tragici e perversi di questo approccio nel Novecento).
La coscienza della complessità ci fa capire che il futuro sarà il risultato di processi emergenti, in cui entrano in gioco molteplici variabili e dimensioni. La coscienza della complessità ci fa capire che possiamo suscitare processi che favoriscono l’emergenza di configurazioni auspicabili e credibili allo stesso tempo (come il processo di transizione ecologica, per esempio).
Questo stile di pensiero e di approccio dovrebbe essere acquisito soprattutto dai decisori pubblici, che dovrebbero muoversi e agire al di là dell’alternativa tra il potere, che controlla e determina tutto, o l’impotenza. Tale abito mentale diventa fondamentale dal momento che, in una società e in un mondo complessi, non vi è altra soluzione se non quella di imparare a fare i conti con un sapere sempre incompleto, di imparare a non ignorare la propria ignoranza, e di tenere a mente il principio di ecologia dell’azione: ogni azione entra a far parte in maniera aleatoria di un gioco molteplice e complesso di interazioni e di retroazioni. Di questo gioco, colui che agisce non ha il controllo e spesso non ha nemmeno il minimo sospetto.
Nel futuro aperto che accettiamo di porci di fronte, c’è qualcosa di inedito, ricordiamolo: l’irruzione nella storia umana di una Terra che non è il quieto sfondo delle operazioni umane, ma è attiva e reattiva. In verità lo è sempre stata, ma solo di recente l’impatto umano sul pianeta è considerevolmente aumentato, e in brevissimo tempo.
Ma non si tratta banalmente, retoricamente, della difesa dell’ambiente. Ci attende un compito, un’opportunità, una possibilità più ambiziosa. Quale? Umanizzare la modernità!
Umanizzare la modernità, oggi, nel contesto di risorse limitate a fronte dell’incremento demografico e dell’impronta umana rilevante sul pianeta, significa chiedersi: come reinventiamo i significati e i fondamenti materiali della libertà, dell’uguaglianza, della dignità del lavoro, della qualità della vita, del benessere? Che senso nuovo diamo all’idea di progresso sociale? Non dobbiamo forse farlo non più a partire dal sogno di abbondanza che è appartenuto tanto al capitalismo quanto alle ideologie anti-capitalistiche? Non dovremo forse farlo a partire anche da un nuovo partenariato con la Terra, a cominciare dai nostri territori locali, e dalle mediazioni tecniche nuove che saranno implicate da questo partenariato?
La risposta a tali quesiti apre
i cantieri per un pensiero politico
che accetti la sfida della complessità
e si intrecci con il problema
della crisi della democrazia.
Al suo stato nascente, infatti, la democrazia moderna è stata fondata sulla speranza di un mondo migliore. “Democrazia” non è stata solo l’accesso del “popolo” al governo (cioè l’inclusione politica crescente di età e fasce sociali), ma anche il diritto di tutti ad accedere al mondo moderno, che è quello della cultura, dell’istruzione, della scienza, delle tecniche, del benessere. Partiti e attori sociali organizzati, oggi non a caso anch’essi in crisi, si sono presentati come agenti del progresso, in competizione per contendersi il controllo della direzione della locomotiva della storia e per poterne persino in tanti casi accelerare l’approdo alla stazione finale, ovvero la piena realizzazione del progresso e una società armoniosa e felice. Ora, due secoli di modernizzazione ci hanno fatto approdare in un tempo di policrisi che sembra preludere a un’età di catastrofi più che di progresso. e minacciare addirittura il futuro della specie umana sul pianeta.
Anche il destino della democrazia, allora, in questo scenario, è segnato?
Assolutamente no. Non solo perché la democrazia, grazie ai princìpi del pluralismo, del dibattito, della partecipazione attiva, della valorizzazione del dissenso, è il sistema più adeguato a governare la complessità, le transizioni, e a “digerire” le crisi. Non solo perché la democrazia fornisce gli abiti mentali, gli strumenti e le procedure per attuare l’equilibrio e il confronto permanente di punti di vista diversi e di saperi diversi necessari a gestire ambienti sociali complessi. Bensì, anche perché la complessità del nostro tempo rappresenta una grande opportunità di sviluppo e di rinnovamento per la democrazia stessa. Le democrazie, nate storicamente nel perimetro degli Stati nazionali, hanno l’occasione di diventare più complesse e aperte attraverso la presa di coscienza del contesto di interdipendenza globale in cui si svolge ormai la vita delle collettività, e in una costellazione metanazionale di spazi di cooperazione da contrapporre allo pseudo-multilateralismo degli “spazi imperiali”.
Ciò richiede di aprire vie nuove al sempre fragile radicamento della democrazia, moltiplicando i modi di espressione, le procedure e le istituzioni della democrazia stessa.
La crisi della democrazia rappresentativa impone di andare al di là dell’esercizio elettorale-rappresentativo, pure indispensabile, e della democrazia dell’autorizzazione, in cui l’elezione è un permesso a decidere e a governare.
Una democrazia dell’interazione può mettere in opera dispositivi permanenti di consultazione, di informazione, di comunicazione di resoconti tra rappresentanti e rappresentati.
Una democrazia di esercizio può consentire di ristabilire un rapporto di fiducia tra governanti e governati, attraverso regole di trasparenza, di responsabilità, e attraverso la determinazione di qualità personali richieste al “buon governante” come l’integrità e il parlar franco (la parresìa di cui Michel Foucault ha ricordato l’importanza nella Grecia antica). Questi princìpi di buon governo non si applicano solamente al potere esecutivo nelle sue diverse istanze. Riguardano anche l’insieme delle istituzioni non elette che hanno una funzione di regolazione (le autorità indipendenti, le magistrature e tutto il mondo della funzione pubblica).
Una democrazia della prossimità valorizza le esperienze di autogoverno dei cittadini, mediante la partecipazione diretta, che rimane la forma principale di paidèia democratica. La ridislocazione delle istituzioni politiche e amministrative in uno spazio più vicino ai cittadini (in modo da far riguadagnare senso e rilevanza alla politica e alle istituzioni rispetto alla vita quotidiana dei cittadini stessi) e il potenziamento della democrazia partecipativa e locale (anche mediante dibattiti pubblici su scala locale o regionale, per sottoporre ai cittadini progetti controversi) possono incentivare la discussione, a livello locale, di problemi di interesse nazionale e persino globale.
Certo, la via della complessificazione della politica è di primo acchito più scoraggiante di quella della semplificazione. Ma, se è vero che i problemi fondamentali delle nostre società, della nostra storia e della nuova condizione umana sono irriducibilmente complessi, e per l’umanità sono problemi di vita e di morte, allora è inevitabile raccogliere la sfida di un pensiero complesso, che nel futuro dovrà legare riforma della politica, riforma della democrazia, riforma dell’educazione e riforma del pensiero.
© L’Eco di Bergamo
L’articolo La sfida politica del mondo globale proviene da ytali..