Dante è arrivato davvero a Venezia? Il Canto XXI dell’Inferno, centrato sui Barattieri, descrive nei dettagli l’Arzanà, ovvero l’Arsenale. A sua volta, il Canto V del Purgatorio porta in primo piano i canneti tra Oriago e Mira dove il povero Iacopo del Cassero vede delle sue vene “farsi in terra laco”. Avrebbe avuto di conseguenza ragione il compianto Giorgio Padoan che datava al 1314 l’esperienza autoptica dell’autore della Divina Commedia. Per altri specialisti della materia, viceversa, le geniali sequenze sarebbero solo il frutto della visibilità e della fama mondiali della Serenissima, come in chiusura del Rinascimento il Bardo può benissimo non aver visto coi suoi occhi Rialto per concepire il Merchant of Venice. In ogni caso, risulta accertato nelle documentazioni di Archivio il ruolo del Poeta quale ambasciatore dei Da Polenta di Ravenna, così come la sua morte nel settembre del 1321 viaggiando nella palude di Comacchio al ritorno probabile di una missione nel Senato della Serenissima. Lo scopo dettato dalla pericolosa controversia attorno alle saline di Cervia tra Ravenna e la Città lagunare.
Franco Ferrari Delfino ostenta un aspetto mite. Sorride spesso e pare muoversi in punta di piedi per non farsi notare. Sta volentieri, quasi a nascondersi, in gruppo. Un certo gusto epicureo nondimeno lo porta a frequentare i bacari locali, contatti oggi diradati dall’anagrafe anche in lui avanzata (è mio coetaneo). Cultore dell’understatement, della positività nonostante tutto. Una cupa mattina di dieci anni fa, poco prima di partire per Milano per un’operazione delicata al cuore, lo incontro a San Barnaba. E lui, l’eterno accenno di riso da maschera etrusca inciso sul volto, mi stringe con tranquilla noncuranza la mano, mormorando “Ciò, no sta a far schersi”. Docente di filosofia, in passato alle sue spalle pubblicazioni di storia della disciplina a quattro mani col mio collega cafoscarino Carlo Santoli, coordinatore altresì per anni della sezione locale dell’Unione degli atei agnostici razionali, in acronimo UAAR, nonché curatore del Premio di Poesia Scientifica e del Darwin Day, ai versi ha finito per dedicare il meglio della sua vita, con vari titoli. Non inganni però il low profile con cui si manifesta stando ai bordi e rifiutando il ruolo di protagonista. Questa bonarietà non impedisce, ma favorisce un suo fantasticare su bizzarre invenzioni che lo portano lontano e molto in avanti. Nel 2021, il suo 2084, edito da Toletta, ha mobilitato una quarantina di scrittori, di studiosi e di amici a ipotizzare scenari futuri di Venezia, una rappresentazione distopica a metà tra utopia e apocalisse. Adesso, con questi Dialoghi immaginari veneziani, Edizioni virtuali FFD, si sbarazza con dolce tracotanza della catena vampiresca del mercato cui sono sottoposti i libri normali, sottoposti a dazi, filtri e costi tra distribuzione e esposizione in libreria, affidandosi invece a chiavette web con cui si annulla anche il cartaceo e si riduce lo spazio in cui contenere la nuova materia. L’impulso a schermarsi dietro una qualche socializzazione viene comunque rispettato, in quanto sono presenti numerosi acquarelli dal cromatismo esplosivo, firmasti dal pittore Giancarlo Benedetti Corcos, già compartecipe nel leggiadro Giacometo desmissà, sull’infanzia e adolescenza di Casanova, del 2013. La traduzione inglese del testo auspica una circolazione al di là dell’Oceano. Del resto, pure la dedica parla di autori al plurale, di una comunicazione triangolare tra costoro e i personaggi altisonanti, con il triangolo completato nell’ultimo vertice dal pubblico adulto invitato a leggere il testo a voce alta. Si tratta in fondo di battute, con spazi vuoti, tanta aria in mezzo, frammenti veloci di dialoghi, una sorta di scenette-sketch, o di cartelloni da foire, di sonatine la cui brevitas da sempre connota i componimenti di Ferrari.
Evidente, la vocazione dialogica di una scrittura del genere. Franco si dichiara responsabile delle “parole di scena”, quasi queste parole ambissero al palcoscenico. E dialoghi platonici, galileiani, leopardiani (Operette morali) costituiscono non per nulla la bibliografia sotterranea del suo curriculum creativo. E di questa agilità nervosa, testimonia il Dialogo dei piccoli sistemi nel 2013 in cui i cavalli di San Marco, i Mori della Torre dell’Orologio e l’Arcangelo Gabriele del Campanile conversano tra loro in una vertiginosa e insieme disincantata ciacola sul non senso della Storia e della Vita. Ma intanto la poesia, o meglio quel che resta della poesia, si fa prosa con buchi, con béances, tagliata ad esaltare aforismi, nel significato chirurgico del lemma, sprigionando da sé enunciati fulminanti, a rimettere in circolazione la memoria dei proverbi nella koinè locale. Ormai non ci sono più i versi, asciutti e discorsivi fin che si vuole, ma sempre versi, delle Poesie per ospiti del 2005. Nemmeno “rimette”, come più volte si ribadisce in queste pagine. No, restano solo suoni in battuta che chiedono appunto di essere pronunciati per colorarsi come gli acquerelli che li accompagnano. Da qui, zampillano i “pallido come na strassa”, “tocio de polenta”, pallido coma na strassa, “chi ga case non ga pase, chi ga schei no ga cavei”, “imbriaghi duri”, mentre riluce la tipica antifrasi della espressività veneziana, come “un ponte e una calle” a significare la massima distanza.
Dialoghi immaginari, insomma, quali autentiche Fake news o invenzioni del verosimile, perché Ferrari, novello piccolo Borges lagunare, se non indaga a lungo sulle fonti filologiche, crede in compenso e fa credere alla presenza reale del Poeta a Venezia. Tant’è vero che tra i concertatori del volumetto viene nominata tal Beatrice di San Vio, teologa dantesca, ovviamente una burlesca finzione, col cognome che pare un nickname dal toponimo, uscito dalle consuetudini liberty di D’Annunzio. Si parte innanzitutto da un discorso in latino tenuto dal Poeta davanti al Maggior Consiglio nel luglio del 1321, senza precisarne il giorno. E torna il contesto della Piazza, cara a Ferrari come salotto cittadino e luogo in cui si concentra la tradizione comunitaria della Repubblica Veneta. Oggi, come si sa, il sindaco Brugnaro vieta le riunioni politiche alla Piazza stessa. Ma nell’incipit del testo, il Poeta stesso viene sparlato dal Doge Soranzo che si lamenta col Notaio Todeschini: “Ma chi xéo sto Mona che no sa gnanca l’Italiano!”. Perché il veneziano risulta lingua di Stato, allo stesso livello del fiorentino. Anzi, tra gli storici non manca chi ipotizza che senza la sconfitta di Agnadello del 1509, nei pressi di Cremona, allorché l’Europa intera si alleò contro Venezia per limitarne l’espansione nella penisola, oggi parleremmo veneziano e non toscano. In Piazzetta San Marco, verso il molo, Dante corrucciato incontra Marco Polo che assiste ai giochi al campanòn della sua nipotina Ottavina. Sulle pietre dell’amata pavimentazione, la bambinella di dieci anni gioca a fare dispetti al naso adunco del Poeta. Enfant prodige priva di reticenze o di pudori, costei arriva a rivolgersi con irriverenza al Poeta: “versi no fasso, testa de…”. Nel frattempo, con procedimenti plurilinguistici bachtiniani applicati alla cultura popolare del Carnevale, Ottavina alterna veneziano a latino. In cambio, la sua illustre vittima non si offende, anzi vagheggia di scrivere un nuovo testo comico, e di averla nelle vesti di novello Virgilio. Ma la bimba sogna invece per sé un futuro di impiraressa, un ludico e distensivo far collane. Nell’idea compositiva di Ferrari, le due star si incontrano in quanto entrambi hanno compiuto un viaggio, uno colla forza dell’immaginazione per le tre Cantiche, l’altro per il viaggio nell’Estremo Oriente da cui nasce Il Milione. In più, questa relazione rientra nella metaletteratura in voga nel secolo breve, nello spin off praticato spesso alla fine del secondo Millennio. Si prendono personaggi appartenenti a epoche o territori diversi, li si mette insieme, e si vede quel che succede. Così fa Primo Levi ne Il Parco, racconto ospitato in Vizio di Forma del 1971, in cui Ofelia sta accanto a Sandokan, Clitennestra a Egidio, Lord Jim conradiano a Elettra, Lesbia al brancatiano Paolo il caldo. Più in là, in una bettola fumosa che pare uscita da un quadro di Cezanne, giocano a carte il boccaccesco Calandrino, lo Švejk di Jaroslav Hašek e poi di Bertolt Brecht, il dickensiano Mr. Pickwick e il Vecchio marinaio di Coleridge. Così fa Giorgio Manganelli in High tea del 1974, dramma radiofonico mai andato in onda per censura, dove Edipo e Giocasta, Amleto e Ofelia, Cristo e la Maddalena, confabulano tra loro con algida nonchalance. Così infine Le nozze di Hitler e Maria Antonietta nell’inferno, di Juan Rodolfo WIlcock, edite postume nel 1985, ostentano con iattanza un al di là dantesco, divenuto un salotto travolto da incessanti intrusioni anacronistiche. Hitler è un buontempone patetico che suona il pianoforte, dietro di lui il caustico Karl Kraus ne parla come di un fatuo bellimbusto. Spunta anche un Mussolini obeso che si lamenta per la mancanza di amici, mentre l’eroina del titolo, ben distante dalla creatura finita alla ghigliottina, è una ninfomane scatenata, con cinque mariti nel curriculum amoroso, invaghita di Garibaldi. Vengono meno, in generale, le coordinate spazio temporali, nella collisione tra pancronie e anacronismi. Da tutto ciò, si leva un capriccioso e disinvolto Alzheimer che annulla gerarchie e giudizi nel beffardo oblio della Storia.
Ma Dante e Marco Polo (il veneziano più stagionato di undici anni rispetto all’altro) sono coevi e il loro connubio rientra almeno nella sfera del possibile. Allora, Marco Polo può portarsi agevolmente il poeta nella sua abitazione a San Giovanni Grisostomo, e rifocillarlo grazie a un menu ricostruito seguendo un ruffiano baedecher turistico, a base di seppie in umido con polenta, sarde in saor, risi e bisi, zaletti, annaffiati da Vin di Cipro, prelevato alla Mirandolina goldoniana. Cibo e libagioni addormentano Dante, gli fanno sognare colloqui con Beatrice e Maria, oltre a interventi del negromante Pietro d’Abano, finito bruciato in effigie nel 3016, intorno a progetti di cambi anatomici del corpo umano, spostando gli organi sessuali sulla mano: una semplice stretta potrà bastare a far continuare la specie. Non basta, perché nel dormiveglia il Poeta si occupa di progetti educativi nei riguardi della passione, per estirparne il rischio della cattività nei sensi, magari per non finire preda di Circe, una spinta a sublimare il desiderio nella bontà e nella ragionevolezza. Poetica dantesca metabolizzata in modo originale da Ferrari, forse lettore dei romanzi di Jane Austen. Allo stesso tempo, Dante deve rispondere alle domande maliziose di Marco Polo sull’iconografia sacra della Natività, col bue cornuto che soffia calore al pupo santo, ma a fianco di un Giuseppe perplesso sull’origine autentica di quella strana nascita. Da un sonno tanto produttivo, lo sveglia l’amico che gli porta il “cafè schieto” e gli chiede “Col sùcaro o sensa? Altro che sale per le Scale!”.
A chiudere questo capriccio delirante e virtuosistico, ecco la profezia che vede nel 1321 cinesi e mongoli che arriveranno a Venezia settecento anni dopo. Anche stavolta, l’immagine oscilla tra la paura della catastrofe, in questo caso l’invasione turistica, e la speranza di un’umanità armonizzata grazie all’accettazione delle differenze. Ferrari ha frequentato il Liceo Marco Polo, davanti al quale si erge il dinamico Ponte de le Maravegie. Tradotto in francese, Il Milione viene inserito nel quattrocentesco manoscritto miniato Livre des merveilles. Analogamente, tutto in questo piccolo poemetto aspira alla luce, pulviscolo carnevalesco di coriandoli, nella fusione rasserenante, in termini junghiani, tra senilità e puerizia.
Immagine di copertina: Dante, Marco Polo e Ottavina s’incontrano sotto le colonne di Narco e Tódaro in Piazzetta San Marco, luglio 1321 (© Giancarlino Benedetti Corcos)
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