A Natale, di solito si diventa buoni. Contribuisce, a questa sterzata, anche la tv che recupera per l’occasione Eduardo. Al di là dei ricorrenti cicli di un serbatoio inesauribile là depositato, si ricorre spesso al suo Natale in casa Cupiello, quasi un rituale di riconoscimento. Quest’anno però la religione risulta riformata con una qualche sfrontatezza a vedere la risposta fobica sui social, che misurano la febbre nella ricezione. Certuni nei commenti parlano di lesa maestà, di orrore complessivo davanti alla distruzione di un capolavoro, assegnando al copione di e con Eduardo il titolo di patrimonio dell’Unesco. Si tratta di reazioni che in fondo ricordano quelle a suo tempo davanti alla Messa celebrata in lingua italiana, deposto il latino, a ridurre la distanza dai fedeli.
Cosa è successo? Semplice: il 26 dicembre scorso, Rai Uno ha mandato in onda la versione di Vincenzo Salemme. Nel coro delle stroncature, si arriva a definirla un’edizione macchiettistica, nonostante la musica suggestiva del premio Oscar Nicola Piovani, una messinscena a livello da oratorio. Qualcuno confessa di essersi aspettato, assistendo alla blasfema provocazione, di veder entrare in scena da un momento all’altro Boldi e De Sica come nei film natalizi. Di contro, gli innovatori apprezzano al contrario e si rifanno agli oltre tre milioni di spettatori, col venti per cento di audience. Commenti leggibili in calce sotto il file in YouTube, dove si sprecano espressioni di gratitudine e di entusiasmo inneggianti all’evento. Sono più che altro i tanti followers devoti a Salemme, star contemporanea nel recinto napoletano. La loro argomentazioni si basano sul fatto che ogni remake tradisce necessariamente il modello per non esserne copia. Non è chiaro a questo punto chi siano i conservatori tra i due partiti. La prima volta che il piccolo schermo ha ospitato la commedia è il 1962, in bianco a nero, dove il verdetto finale del medico lasciava aperta la possibilità di salvezza per Lucariello protagonista.
Ad avviare la fase dei liberi adattamenti, c’era stata in verità anche la versione di Sergio Castellitto e Marina Confalone nel 2020, attivata dal calendario per il 120esimo della nascita dell’autore/attore. Tutte soluzioni di risonanza minore, annullate dalla memorabile edizione a colori del 1977, con Pupella Maggio, Lina Sastri, Luca De Filippo, figlio anagrafico e figlio in scena. E via allora a confronti impietosi non solo tra Eduardo e Salemme, ma anche tra Pupella Maggio e Antonella Cioli, nella parte di Concetta, e tra Luca De Filippo e Antonio Guerriero in quella di Tommasino, entrambe rese in modo sbiadito secondo giudizi impietosi.
Ora Salemme, attore regista, si è formato proprio alla scuola di Eduardo, avendoci lavorato negli ultimi due anni di vita, come mera comparsa o in personaggi di contorno, e quindi in compagnia del figlio Luca fino al 1992. Poi, se ne è staccato, rendendosi del tutto autonomo grazie ad una carriera brillante, anche tramite epifanie nel salotto-vetrina di Maurizio Costanzo. Tanto più che in una intervista al Corriere della sera ha dichiarato che lui col Maestro “non ci azzecca niente”. La ripresa Rai dall’Auditorium della sede napoletana, con gli spettatori reali in sala, affida al pubblico quasi la funzione di claque, per applausi collaborativi, a partire dall’apparizione, emerso dalle coltri, del protagonista e assicurargli carisma. Una confezione simbolica a testimoniare che almeno per un anno, dalla fine del 2023, Salemme ha portato in giro lo spettacolo, rodandolo a lungo con successo al punto da meritare la ripresa televisiva offerta durante le feste di Natale.
Ma adesso nello spazio grande del palco, dopo la carrellata iniziale di immagini della bassa partenopea, tra vicoli stretti e sudici, biancheria stesa tra finestre e muri diversi, si notano presto disinvolture e incongruenze che non si possono tacere. Il Lucariello di Salemme si sveglia, infatti, togliendosi la pila di scialli dalla testa a ripararsi dal gelo, omaggio all’archetipo storico del 1977, e intanto la moglie, Antonietta Cioli, entra con un abito poco consono al tempo inclemente. Lo stesso protagonista poco dopo si alza e pare dimentico del freddo. Quel che si nota subito è comunque l’andante con moto del ritmo complessivo nella detta messinscena rispetto agli adagi del ’77. La voce di Eduardo, inarrivabile, man mano che l’anagrafe ne asciugava volto e corpo, usciva en ralenti, mescolandosi e sporcandosi tra continui borborigmi, emissioni ansimanti di soffiate varie. Una dispersione fonica diluita spesso in rumori dell’anima, in suoni rabbrividenti dei nervi, a cercare appoggi attraverso autistiche ruminazioni. Il primo atto, in particolare, di fatto il secondo nella storia travagliata della stesura, ossia il 1932, preceduta dal secondo con cui nasce il testo l’anno prima ad opera della gloriosa compagnia del Trio umoristico dei De Filippo, per completarsi poi col terzo atto nel ’34, rappresenta a mio parere il capolavoro assoluto della sua drammaturgia familistica. Il nulla minimalista della vita quotidiana in una piccola borghesia alle prese colla sopravvivenza nel dissidio pirandelliano tra facciata onorata e pratica da sottobosco immorale.
Qui, interagisce un autentico trio da camera, un pianoforte, un violino, un violoncello, poi quartetto all’entrata del fratello Pasqualino di Gino Maringola, altro violino e altro magnifico caratterista della compagnia di Eduardo. Costui si lamenta per il furto delle scarpe e del cappotto ad opera del nipote, allevato alla prigione dalla madre permissiva, secondo Luca. E quest’ultimo, la moglie Concetta e il figlio Tommasino chiosano con smorfie e controcanti irresistibili la breve inchiesta sulla sparizione del guardaroba. Nella versione di Salemme, certo le battute sono più o meno le medesime, nel rimbalzare tra “Scetate” e “Nun ce la faccio chiù”, ma il tutto sembra un mero ripasso della trama. I gemiti di stanchezza, gli incidenti linguistici, le esplosioni d’ira, le pause rassegnate si ripresentano in sintesi, accennati in fretta, senza convinzione. Questo non impedisce che la prima versione duri due ore e dieci minuti, e la seconda dieci minuti di più, grazie ad allunghi di alcune sequenze marginali e agli intermezzi musicali. Se mettiamo vicino i due incipit, con i risvegli in progress di padre e figlio, nella stanza che va rischiarandosi a poco a poco, risvegli rinviati in Eduardo perché tentati dal rientrare nel lungo sonno, temendo l’impatto con una realtà sgradevole e sgradita, e invece rapidi e scattanti in Salemme, colla voglia di protagonismo e di visibilità di Vincenzo, che si impossessa del famoso titolo a rivendicarne umilmente il diritto ereditario.
Bisognerebbe ignorare il modello alle spalle, altrimenti la proposta innovativa fatica a reggere. Intanto l’anagrafe. Nel 1977, Eduardo ha 77 anni, quelli di una volta, incarnati in un fisico macilento, con tante tragedie private metabolizzate, e un intero repertorio personale scritto e interpretato. Figlio bastardo di Scarpetta innanzitutto, come i suoi fratelli, cresciuto infante nel palco secondo la tradizione dei guitti itineranti e cerretani. Salemme, all’opposto, figlio di un avvocato e di un’insegnante, dunque estrazione dalla buona borghesia partenopea, ne ha solo 67, quelli di oggi, in un corpo asciutto, tenuto su in modo atletico e prestante, compiaciuto del proprio aspetto, legato all’idea di beltà personale, lontano da qualsiasi suggestione di caduta, di insuccesso, di fine. Dieci anni di differenza tra loro scavano un solco, tracciano un abisso, tra la carriera teatrale con escursioni non saltuarie ma minori nel cinema, una visibilità internazionale dell’uno, e un’altra mediatica, mista con costanti trasbordi in media articolati, tradotto in pellicole tratte da copioni, dopo esordi in ruoli piccoli per lo più con firme prestigiose come Nanni Moretti e Mario Martone. E si aggiungono in Salemme show televisivi il sabato sera, mansioni da giurato per anni in Tale quale, alla ricerca programmata di aumenti di visibilità, nell’ambizione non sempre realizzata di passare da una popolarità spendibile in ambito regionale a quello nazionale. In più, il genere farsesco, primo gradino nella formazione di Eduardo, e poi svaporato gradualmente anche nella frequentazione pirandelliana (causa tra le altre della rottura drammatica con il fratello Peppino, comico sovrano), mantenuto nondimeno nel plot di Natale, colle corna, con il padre ingenuo e con il figlio ladro impunito, dilaga adesso nella versione di Vincenzo, attratto in termini irresistibili dal filone leggero. Far ridere la sala, questa la sua vocazione, cui il pubblico aderisce soddisfatto. E la controprova scatta puntuale nel finale, patetico/elegiaco in Eduardo, dove Luca si spegne appoggiandosi al figlio Tommasino, ora disposto ad apprezzare il presepe del genitore, che gli biascica addosso con labbra prive di saliva un mormorio prossimo a spegnersi “è bello o presepe”.
Il tragico, tenuto nel sottofondo da Eduardo, non affiora mai nei registri vincenti di Salemme, non pertiene alla sua storia teatrale, umana ed emotiva, affezionato com’è alla battuta frettolosa, alle accelerazioni funamboliche dell’eloquio, forse una lontana eco futurista, movimento radicato nella Napoli di un secolo scorso. Anche il gruppo strabordante che si accalca ai bordi del letto, vicini di casa e coinquilini, in pratica una rappresentanza dell’intero quartiere, a scroccare una tazza di caffè, e a spiare la morte in arrivo, ora si seleziona, e non sottrae più l’aria al malato terminale.
In un certo senso, questo Natale in Casa Cupiello diviene più che mai Cantata dei giorni pari, cui pure rientra in quanto steso prima del 1942, ma anche nel pieno significato di opera propizia, dal finale conciliante e speranzoso. Epperò, l’auto-investitura con cui il nuovo interprete si addobba da demiurgo di provincia, mostra proprio nel finale la corda. I suoni dello spegnimento si provano a citare quelli di Eduardo, ma il respiro è un altro. Il racconto dei fagioli, ad esempio, risulta comprensibile, non si disperde nei conati auto-narrati. La consueta incertezza, altresì, tra il sì e il no del fantastico, in questo caso l’ossessione regressiva per le luminarie del presepe, l’oscillazione snervante tra falsità e autenticità della fuga nel magico tipica del repertorio eduardiano, nel lavoro di Salemme conta meno.
Allo stesso modo, l’intreccio di molte sue commedie che favorisce lo scatto improvviso verso derive allucinatorie, dal sogno alla pazzia, verso deliranti e neurotiche auto spiegazioni da parte dell’Eroe sconfitto, da Questi fantasmi a La grande magia, qui si nota poco. Così pure, la malattia dall’esito mortale che fa intravedere a Lucariello la figlia unita coll’amante, scambiato per il marito, retrocede in secondo piano fino a svaporare. In compenso, Salemme vira verso l’apoteosi commovente, il figlio Tommasino che porta in un carrello il presepe, mentre lui scandisce le lodi allo stesso. Si spinge a ordinare alla neve di scendere, gesto felliniano approdato sotto il Vesuvio. E il saluto al pubblico del vecchio tremulo Eduardo in camicia da notte che si china di spalle davanti alla sala dipinta nel 1977 si contrappone brutalmente a quello dinamico di Vincenzo, elegante in calzoni e camicia, che balza dal letto, rinato come per atto di grazia a ringraziare Barbara Napolitano, regista jazzista colle telecamere, e i dirigenti Rai, nonché l’autore “gigante”, i produttori dello spettacolo teatrale e soprattutto il pubblico. E nel frattempo non fa che saltellare e battere le mani, per poi chiamare la pubblicità. Quale ultimo messaggio, la solenne dichiarazione che questo copione gli è entrato ormai dentro, in quanto gli ha insegnato a morire, aggiunge, e condizionerà il suo futuro di lavoro e di vita. Frasi dettate dall’euforia? Vedremo.
Natale in casa Cupiello, Edizioni NPE
Per concludere, ritorno alla questione primaria. Rispettare il copione collo stesso interprete originario e non permettersi dunque profanazioni laiche del mito? Questa la tautologia che incombe. Perché per troppa fedeltà, ci si annulla in effetti. D’altra parte, l’archivio Rai consente una simile subalternità rispetto al modello. L’archivio lo permette. Il discorso vale anche per Dario Fo, facendo i dovuti distinguo tra l’altezza metastorica di Eduardo e il minore spessore di Dario drammaturgo. Senza i suoi interpreti ‘naturali’, questi copioni sono destinati a sbiadire? A furia di sagomare sui propri corpi gli abiti, questi sarti hanno condannato all’impotenza i loro eredi. Poi mi è capitato di vedere a teatro nel 2002 Toni Servillo colla splendida Anna Bonaiuto in Sabato,domenica e lunedì, del 1959, da me considerata un’opera minore, e ho dovuto ricredermi. Il testo funzionava alla grande, in modo indipendente, senza creare confronti e far scattare sterili nostalgie. Ovvero, il copione ricominciava a vivere, come fosse la nascita vera, e si rimetteva in moto, sprigionando allora di nuovo energie fresche e ulteriori illuminazioni. La qualità in tutti gli ingranaggi dello spettacolo unita all’amoroso rispetto con qualche piccolo tradimento nei riguardi del testo eduardiano sprigionava il miracolo.
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