Aveva appena compiuto trent’anni, Joe Biden, quando nel 1972 fu eletto senatore del Delaware. Il sesto più giovane senatore della storia americana sarebbe diventato cinquant’anni dopo il più vecchio presidente degli Stati Uniti, quando nel 2020 batte Donald Trump, il rivale repubblicano che quattro anni prima aveva sconfitto Hillary Clinton. Il ragazzo balbuziente, il politico noto per le sue gaffe, il cattolico praticante con una vita personale segnata da lutti e disgrazie, lui, la quintessenza della vecchia scuola democratica, se l’era sudata l’ascesa al vertice del potere americano. Ma anche meritata. Infatti avrebbe poi raggiunto un altro grande risultato, con il successo del suo partito nelle difficili elezioni di medio termine del 2022, generalmente un test negativo per il presidente in carica. Poi l’improvviso declino psicofisico. Il penoso tira e molla con i notabili democratici sul suo ritiro dalla corsa. E infine il passaggio del testimone a Kamala Harris, troppo tardi per fermare la corsa verso la Casa Bianca del vecchio rivale. Una carriera, la sua, che rispecchia e racconta una metà del Novecento e un quarto di questo nuovo secolo, emblema, nel bene e nel male, di una politica e un modo di far politica che tramontano con lui, come appartenessero a un’epoca remota, a un altro mondo, passando la mano – sono sue parole – a “un’oligarchia che sta prendendo la forma, in America, di estrema ricchezza, potere e influenza, che letteralmente minaccia la nostra intera democrazia, i nostri diritti e libertà e fondamentali e un’equa possibilità per ognuno di andare avanti”.
Biden è l’ultimo presidente. Di una lunga epoca. Che inizia con il monito sui pericoli posti dal potere del “complesso militare industriale” – parole di Dwight D. Eisenhower nel suo discorso alla nazione di congedo dalla presidenza, nel 1961- e finisce con la denuncia della potenziale ascesa di “un complesso tecnologico-industriale che potrebbe rappresentare un pericolo reale anche per il nostro Paese”. Un discorso che è un manifesto politico, venti minuti di sussulto morale su quanto sta per accadere con l’ingresso nell’Oval Office, il prossimo lunedì, di Donald Trump con la sua corte di affaristi e tech billionaire: “In una democrazia, c’è un altro pericolo nella concentrazione di potere e ricchezza” in quanto essa “erode un senso di unità e la condivisione degli obiettivi. Causa sfiducia e divisione. E la partecipazione nella nostra democrazia Partecipare alla nostra democrazia diventa estenuante fino a provocare disillusione”.
A chi affidare un messaggio così forte? Al suo partito, ancora imbambolato, senza parole, dopo il ko di Kamala Harris?
Trump domina incontrastato la scena. Lo slittamento verso l’autocrazia – per usare un termine sobrio di Kim Lane Scheppele e Norman Esien sul New York Times – è stato già messo in evidenza, all’indomani della vittoria di Trump, da quella che è stata definita da Josh Marshall su TPM, anticipatory obedience, obbedienza preventiva, da parte di personaggi che avrebbero potuto ancora impiegare il potere che detengono, almeno per contenere lo strapotere del duo Trump-Musk e compagni billionari, e che, invece, per paura di ritorsioni, sono andati cappello in mano a Mar-a-Lago, a baciare la mano dell’uomo forte.
Ai poteri forti dei media e dell’high tech, che hanno doviziosamente pagato le faraoniche quattro giornate dedicate alla cerimonia d’insediamento, si uniscono i vassalli europei bramosi non solo di obbedire al nuovo imperatore ma anche di osservarlo e replicare pedissequamente in casa propria sue teoria e prassi. La presenza di Giorgia Meloni, Viktor Orbán, Javier Milei, Nigel Farange, Tom Van Grieken, Mateusz Morawiecki, è scontata, meno l’assenza di Marine Le Pen, che si vede soffiata la sedia tra gli ospiti stranieri da Éric Zemmour, leader di Reconquête!, accompagnato da Sarah Knafo, una destra che è liberista in campo economico e per questo più in sintonia di Rassemblement National, con il copresidente Elon Musk. La partecipazione all’Inauguration Day di questi illustrissimi personaggi è ancor più un fatto politico rilevante considerando che normalmente è una cerimonia tutta americana, con la presenza per cortesia dei rappresentanti del corpo diplomatico a Washington. Tanto più significativa, questa novità, perché agli amici europei si dovrebbero associare nemici come i rappresentanti della Cina, il vice di Xi Jinping, Han Zheng, e il ministro degli esteri Wang Yi. È un bizzarro parterre che mette ancora più in evidenza sia l’assenza di molti rappresentanti del Partito demcoratico sia il mancato invito a Ursula von der Layen.
Attorniato da questi personaggi, in una cerimonia di sfarzo pacchiano, Trump intende ridare un’aura imperiale alla presidenza americana, anche nella sua proiezione internazionale. Senza per questo dismettere i panni del capopopolo. La mattina di domenica, alla Capitol One Arena, Trump parlerà alla sua base – Make America Great Again Victory Rally – per celebrare con i suoi sostenitori la vittoria elettorale. E per mettere così in chiaro che, al pari della sua prima presidenza, anche la seconda sarà caratterizzata da un permanente attivismo populista in diretta connessione innanzitutto con i suoi sostenitori. Un imperatore movimentista. Sostenuto dal potere del “tech-industrial complex”.
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