Venezia è Laguna, perché la città e il suo intorno lagunare sono un unicum da salvaguardare per i suoi “valori di sistema”. Valori storico architettonici (prevalenti in città e nelle parti costruite) o ambientali e paesistici (che ne segnano le parti d’acqua e semi sommerse).
Ed è a questo sistema “Venezia e la sua Laguna” che l’Unesco ha assegnato lo status di “bene patrimonio dell’umanità”.
Oggi le prospettive di una Venezia svuotata dall’overtourism sono tutt’altro che rosee.
Il governo locale, in attesa di rendere conto del suo agire alla magistratura, continua ad assecondare l’appiattimento dell’economia cittadina sulla rendita speculativa che la monocultura turistica porta con sé. La trasformazione dei palazzi in alberghi e delle abitazioni in case vacanze (sottraendole al mercato dell’affitto residenziale) rischiano di essere l’ultimo colpo alla sua natura di città. Con una dinamica sempre più spedita verso l’azzeramento di un’economia plurale e dei suoi servizi urbani: residenza, commercio di vicinato, luoghi e forme delle relazioni tra gli abitanti.
È ancora possibile invertire la tendenza?
Oggi è dalla Laguna (la parte “periferica” del sistema) che ci vengono pratiche e indicazioni “concettuali” per aiutare il centro (la città) a contrastare la monocultura.
Alla ricerca di anticorpi alla valorizzazione speculativa si può partire da un’idea di gestione di alcuni beni comuni emergenti della Laguna di Venezia ispirata alla filosofia del loro ”uso civico”.
Si tratta di un’idea e di pratiche la cui validità esce dai confini del nostro territorio e ci può portare lontano.
Tre isole un filo comune
nella gestione comunitaria e inclusiva
di beni comuni (pubblici e privati)
In Laguna abbiamo esperienze diverse, ma con un elemento comune: la natura inclusiva e partecipata delle azioni e dei risultati ottenuti, attraverso azioni promosse dal basso.
La “riapertura” del Lazzaretto vecchio e il percorso verso il Museo storico Archeologico della Laguna di Venezia
Il Lazzaretto vecchio è una piccola isola della Laguna sud di circa due ettari e mezzo, di cui più di ottomila metri quadrati edificati, posta di fronte a via Riva del Corinto, a pochi metri di distanza dalla costa occidentale del Lido.
Quando, nel 1423 il Senato della Repubblica decise di localizzarvi un ospitale destinato all’isolamento dei malati di peste fu la prima struttura al mondo destinata a questa funzione.
Successivamente, nel 1468 fu aperto il Lazzaretto Nuovo, su un’isola di circa nove ettari, posta all’inizio del canale di Sant’Erasmo, che aveva invece compiti di quarantena per gli imbarcati sulle navi che rientravano in città da destinazioni sospette.
Nel caso del Lazzaretto vecchio, a un consistente investimento statale per un restauro (nel 2008 sono terminati i lavori – 25 miliardi di lire per farne un museo archeologico nazionale della Laguna di Venezia) era seguito un periodo di abbandono che l’aveva portata a diventare nuovamente preda di atti di vandalismo e saccheggio. Partendo da questa situazione di degrado, si è avviata una lunga e tenace azione dell’Archeoclub d’Italia sezione di Venezia. Migliaia di persone sono state portate a visitare l’isola e hanno potuto stupirsi di come la Laguna sia in grado di rivelare tesori archeologici e ambientali che ai più erano in precedenza assolutamente sconosciuti.
È stato questo il presupposto perché lo stesso Archeoclub si vedesse progressivamente coinvolto nella gestione dell’isola. Dal protocollo con la Sovraintendenza archeologica regionale del Veneto del 2013 che gli affidava vigilanza e apertura si è così passati ad alcuni anni di visite e lavori in isola, per arrivare (dopo l’inserimento dell’isola nel polo museale veneto nel 2017) al rilancio dell’ipotesi di Museo.
Nel 2018 Archeo club ha organizzato un primo workshop.
Prende in questo modo forma l’ipotesi che il Lazzaretto Nuovo rimanga una bene pubblico e venga fatto un uso della città e della Laguna di Venezia che (non solo Venezia) si attende da decine di anni. Si può ben dire, in questo caso, che l’azione di una associazione di volontariato dotata di spessore culturale e capacità di progetto abbia saputo suscitare energie capaci di sottrarre all’abbandono un sito pubblico di grande interesse storico e paesaggistico. Sito per il qual non si è realizzato il percorso che dall’abbandono porta al degrado e da questo alla vendita del bene e alla sua valorizzazione trasformandolo in albergo di lusso, con la conseguenza che il sito produce reddito, ma solo per i privati che vi speculano.
Si è invece realizzata una valorizzazione non strettamente economica, ma in cui il valore aggiunto ad eventuali investimenti (comunque pubblici) è dato dal “valore” apportato da una “redditività civica” fatta di allargamento dell’interesse pubblico, diffusione delle conoscenze, coinvolgimento di energie scientifiche e di attività lavorative di cura, volontarie e qualificate.
Alle fine il sito resta pubblico e la sua riqualificazione è frutto di un percorso inclusivo.
Quando gli abitanti prendono in mano il proprio destino:
le Vignole dall’isolamento alla costruzione
di una comunità agricola naturale ed energetica rinnovabile
Chi fosse passato qualche anno fa per le Vignole – la prima isola che si incontra da Venezia entrando, dopo Murano, in Laguna nord – avrebbe visto un bel posto, con un gruppo di case e le coltivazioni agricole che si alternavano ad affascinanti paesaggi lagunari fatti di canali, boschetti, scorci su Lido, Venezia e Sant’Erasmo, contornato alle spalle dalla linea di gronda della terraferma.
Quando seppi che il mio relatore di laurea aveva scelto le Vignole come sede per un “buen ritiro” dopo l’esperienza dello IUAV, decisi che era il caso di andare a trovarlo, anche per vedere se quanto di buono avevo sentito dire su quello che stava succedendo alle Vignole fosse vero.
Luigi Di Prinzio è stato sempre stato – in ambito IUAV – uno che “camminava “avanti”. Da quando anch’io lo seguivo nell’esplorazione di politiche abitative basate sull’uso ottimo del patrimonio edilizio esistente al suo interesse, in anni più recenti, per la diffusione dei Sistemi Informativi Territoriali.
Da quando si è “ritirato” in isola ha smesso i panni del professore universitario per assumere un ruolo di attivista pensatore, capace non solo di avviare un processo collettivo per mettere a punto politiche di rigenerazione territoriale, ma di dar loro gambe entrando nella costruzione di un gruppo che è diventato una vera “comunità di cura”.
Alle Vignole ci sono poco più di una cinquantina di abitanti, che – a differenza della contigua Sant’Erasmo non solo hanno casa in isola, ma nella gran parte vi abitano stabilmente. In questo piccolo gruppo i vecchi residenti si sono mescolati con nuovi arrivati che dimostravano di non essere visitatori occasionali o abitanti di seconde case, ma di aver scelto le Vignole come il posto dove stare e in alcuni casi anche lavorare. Senza per questo chiudersi, ma anzi dando vita a un esperimento capace di costruire una comunità più larga attorno ai valori e alle pratiche messe in atto.
Così, anziché lamentarsi per la condizione di isolamento e lontananza dai principali servizi e per i danni dell’alluvione che nel novembre 2019 colpì Venezia e ancor più la sua Laguna (l’”aqua granda 2.0), proprio dopo quell’evento gli abitanti delle Vignole hanno voluto e saputo ri-organizzarsi, per difendere, superare le debolezze e valorizzare il loro territorio.
Da un vero spirito di comunità è nata un’associazione non profit (una APS ETS, formalmente costituita nel marzo 2021) che nel nome spiega i suoi obiettivi – VERAS sta infatti per Vignole Energia Rinnovabile Agricoltura Sana.
Così è nata l’idea è di realizzare un Agro Parco Ambientale pubblico come risposta ai processi di degrado e abbandono da parte di abitanti e attività delle isole minori della Laguna. Il parco occupa un’area demaniale di quattro ha, da anni dismessa, e che il demanio Marittimo ha concesso in gestione all’associazione.
Il progetto, partito da chi l’isola la vive nella realtà quotidiana, ha saputo allargarsi e coinvolgere una comunità più vasta. In isola hanno cominciato a venire veneziani e visitatori che volevano conoscere questo “esperimento”. Il fatto che si svolgesse nella Laguna di Venezia, le amicizie e le relazioni personali dei soci fondatori hanno portato a collaborazioni di prestigio (accademico) e di grande utilità operativa, come il rapporto con lo IUAV e la Tecnische Univesitat Berlin.
Un gruppo di studenti e docenti di questa Università ha passato lunghi soggiorni di studio e condivisione di pratiche in isola. Ne sono così divenuti essi stessi “abitanti temporanei” e lasciato i frutti del loro lavoro, in particolare contribuendo alla progettazione e realizzazione dell’abro serra.
Fondamentale è stata la collocazione sulla serra di pannelli solari che hanno consentito di far partire il processo per la creazione di una Comunità Energetica Rinnovabile)
Come nel caso del Lazzaretto Vecchio è stato instaurato e rafforzato un rapporto con le scuole veneziane. Queste visite consentono a ragazzi vissuti in città di rendersi conto che esiste anche la dimensione agricola ed agreste, di esserne sempre stupiti e in alcuni casi affascinati.
Ecco quindi una seconda dimostrazione di come lavorare su inclusività e formazione e rafforzamento della comunità consente di cogliere appieno il valore di un bene comune (in parte di proprietà pubblica, in parte dei singoli nuclei familiari privati) che la comunità ha tra le mani (e sotto i piedi): le sue case, i suoi campi, la bellezza del territorio non usato per abitazione e coltivazione.
Elemento decisivo per il successo dell’iniziativa è che i suoi “abitanti” (termine con il quale si intende non tanto che vi risiede, quanto che “abita” un’esperienza o un territorio, perché se na fa carico e se ne prende cura) siano in questo caso (a differenza degli altri due trattati in questa nota) anche “risiedenti” in loco, in modo che la sua cura è rafforzata dalla continuità della presenza.
Altro elemento è che il Demanio abbia vouto valorizzare il territorio di cui è custode non ricavando denaro dalla sua cessione, ma consentendo – attraverso la concessione – agli abitanti, di apportarvi quella redditività civica che lo sta facendo evolvere come parco e come Comunità energetica rinnovabile.
Poveglia – di tutti e per tutti – e l’idea di parco verde lagunare
Poveglia occupa 7,25 ettari di Laguna sud, di fronte a Malamocco. È composta da tre parti: un’isola verde a nord, una parte edificata a sud (con un campanile e i resti di un antico sanatorio) e un piccolo ottagono di fronte a Malamocco.
È sempre stata considerata – da chi va in laguna in barca: a vela, motore o a remi – uno scalo per fermarsi e fare un picnic e magari un bagno.
Quando nel 2014 il Demanio statale la mise all’asta per ricavarne un’entrata per lo Stato, chi non voleva rassegnarsi a vedere un’altra isola della Laguna trasformata in albergo di lusso avviò una raccolta di fondi per concorrere. Andando al di là delle più rosee aspettative, all’appello risposero in più di quattromila (tra singoli e associazioni) e si raccolsero più di quattrrocentomila euro
Furono presentate due sole offerte. Una veniva dall’imprenditore Luigi Brugnaro (che l’anno dopo sarebbe stato eletto Sindaco di Venezia); l’altra dalla comunità che si era formata attorno alla sottoscrizione. Entrambe furono respinte da Demanio, in quanto ritenute non adeguate. Nacque però allora un’associazione tra chi aveva partecipato alla raccolta dei fondi che si dette un nome che ne dichiarava intenti ed obiettivi: “Poveglia per tutti”. In dieci anni l’associazione è stata in grado di “praticare” – almeno parzialmente – l’obiettivo.
Ha portato in isola migliaia di persone a costruire e manutenere i punti di approdo e sbarco, i percorsi e la preparazione di radure e di punti di sosta che hanno reso la presenza di vecchi e nuovi visitatori più semplice e piacevole. Così sono nati i “poveglianti”, creature ormai leggendarie nel panorama dei movimenti sociali. Certo, non hanno casa in isola, ma l’hanno presa in cura e vivificata. Organizzano con continuità feste, incontri e spettacoli, con l’annuale “sagra anomala” in estate, con i numerosi sbarchi in isola che ogni anno ne assicurano la manutenzione e la rendono viva a ben frequentata.
Si è così praticata con continuità una vita sociale e relazionale in un luogo che non è raggiungibile se non con barche private (di volta in volta fornite dai soci e con il noleggio di imbarcazioni di maggior portata nelle grandi occasioni).
Il percorso ha però bisogno di una formalizzazione attraverso una concessione. L’associazione la ha chiesta più volte, ottenendo sistematici rifiuti da parte del Demanio, che il TAR Veneto ha condannato due volte per l’insussistenza dei motivi del diniego. Su questa base è perciò auspicabile che il Demanio possa riprenda in considerazione il progetto che prevede l’impiego del denaro a suo tempo raccolto per la prima asta (e tutt’ora nelle disponibilità dell’associazione) per la realizzazione di un parco verde urbano nell’isola sud verde.
Al di là degli esiti auspicabilmente positivi, resta da rilevare che in più di dieci anni si è sviluppata un’esperienza capace di unire proposta e pratica nella gestione di un bene comune che viene definito “emergente” in quanto degradato e in attesa di valorizzazione.
Poveglia per tutti ha dimostrato quali sono le differenze tra una valorizzazione basata sulla rendita turistica speculativa e quella basata sull’”uso civico”, che apporta il valore dell’azione collettiva di cura. Un’azione che fa bene ai luoghi e alle persone che se ne occupano, come dimostra la solida allegria del gruppo che vi è nato e cresciuto attorno e che ha capito quanto sia non solo utile ma bello essere e sentirsi una comunità.
E il Comune di Venezia potrebbe, se anziché combattere coordinasse le attività svolte dai cittadini – organizzate da imprese sociali e del terzo settore – trovarsi un parco lagunare urbano comunale costruito e finanziato dai cittadini – senza spendere un euro – e da essi gestito per la fase di avvio.
Come valorizzare i beni comuni emergenti
con la redditività civica per un loro uso civico,
sottraendoli alla speculazione
Ma non solo in Laguna ci sono esperienze e pratiche che potrebbero essere definite di “attivismo scientifico”. Qui si è parlato di Lazzaretto Vecchio, Vignole e Poveglia – esperienze in isole di quella “campagna” che lo spazio acqueo è nel grande ecosistema della Laguna. Ma anche nella “città” edificata non mancano esperienze di Beni comuni per i quali sono state pensate (e praticate) logiche di uso civico, con valorizzazioni basata sulla redditività civica apportata da comunità (di cittadini, artisti ecc.).
Si pensi alle comunità pensanti sorte attorno a esperienze quali quelle della Vida o di Sale docks nella città d’acqua o al comitato ex Umberto I in quella di terra.
In questi casi si può parlare di “attivismo scientifico” per analogia con quell’”ambientalismo scientifico” che – a partire dagli anni sessanta del secolo scorso – è stato capace di influenzare la cultura e di permeare pratiche e comportamenti – individuali e collettivi, personali e istituzionali – nel nostro paese.
L’assunzione del senso del limite- di risorse energetiche e materiali a diposizione del pianeta – e della necessità di una giustizia distributiva nel loro uso all’interno di questo limite furono i fondamenti sui quali l’”ambientalismo scientifico” ha basato la sua azione.
Quali sono i fondamenti di questo “attivismo scientifico”, che oggi si occupa dei “beni comuni”?
Innanzitutto la necessità che per contrastare ciò a cui ci si oppone sia necessario essere in grado di proporre una soluzione alternativa.
Le sue azioni sono volte alla difesa di beni comuni emergenti: non quelli basilari (aria, acqua, …), ma territori, edifici o ambiti (per lo più di proprietà pubblica) spesso -ma non necessariamente – lasciati in uno stato di abbandono che facilita le proposte di venderli a chi “almeno li recupera”, ospedali, ex asili, ma anche si pezzi di campagna, di isole e via dicendo.
Se analizziamo i tre casi veneziani qui considerati assieme alle tante esperienze della stessa natura che troviamo in ambito nazionale possiamo identificare alcuni tratti comuni e caratterizzanti del movimento per la gestione ad uso civico dei Beni Comuni emergenti.
Prendiamo allora il Lazzaretto Vecchio, le Vignola e Poveglia e mettiamole accanto (per prendere alcuni casi esemplificativi) all’ex asilo Filangeri con le sue “sette sorelle” napoletane, alla “fattoria senza padroni” di Mondeggi a Firenze, alla “cantoniera autogestita di “Casa Bettola” a Reggio Emila allo “spazio di mutuo soccorso di Bread and Roses” a Bari e a tante altre esperienze diffuse nel nostro paese.
Un primo elemento comune lo troviamo nel mutualismo, capace di mettere insieme soggetti anche diversi in azioni strategiche e ambiti di lavoro che sanno intrecciarsi quanto diversificarsi, sempre pronti a unire le forze quando necessario. Il secondo carattere unificante è dato dalla capacità di essere e costruire comunità e di lavorare in modo aperto e inclusivo e con modalità partecipative.
Tipicamente le decisioni sono costruite e assunte ascoltando e dando spazio a tutte e tutti, con il metodo del consenso per costruire convinzioni comuni (anche rallentando i tempi della decisione se necessario ad assicurare a ognun* di sentire la sua posizione utile e presa in carico).
Sentirsi comunità è una situazione che crea benessere e dà la forza fondamentale per raggiungere gli scopi e per essere capaci di muoversi fuori dagli schemi e dalle compatibilità imposte dal mercato.
La terza caratteristica è la capacità di progetto.
I tecnici che firmano i programmi nelle valorizzazioni finanziarie sono solo ingranaggi, che lasciano alle loro spalle il deserto. Si pensi al caso – al centro della cronaca veneziana e non solo – del Fontego dei Tedeschi: da servizio (storica sede delle poste) divenuto centro commerciale di lusso (progettato dall’archi star Rem Koolhaas) – con uno sciagurato cambio di destinazione d’uso concesso dal Comune a Benetton, finito ora nell’abbandono dopo pochi anni da parte dei gestori, lasciando trecento lavoratori senza un futuro.
Per i beni comuni emergenti le proposte di valorizzazioni ad uso civico hanno alle spalle -come si è visto – alte capacità di progetto sulle destinazioni e sui modi per arrivarci e sui percorsi di gestione.
Questo patrimonio di cui è portatore l’”attivismo scientifico” può e anzi deve varcare i confini dei palazzi e influenzare le politiche istituzionali.
Chi amministra gli enti pubblici che hanno in gestione beni comuni emergenti (dal Demanio statale in giù e con particolare attenzione ai Comuni) deve sapere che li ha solo in affidamento, e per il breve periodo del mandato elettorale.
Questi beni, proprio perché pubblici, sono – come ricorda l’ex vicepresidente della Corte costituzionale Paolo Maddalena – di proprietà e nella disponibilità di tutti i cittadini.
Ha allora senso che siano sottratti al mercato e alle sue logiche di economia monetaria – spesso predatoria e di breve periodo – per essere collocate nella più propria “economia della cura” – capace di assicurarne una gestione comunitaria e a prospettive di lungo periodo.
È possibile pensare a Regolamenti e accordi comunali o territoriali per la cura dei beni comuni emergenti ad uso civico che – dopo averne fatto un inventario – prevedano le forme di affidamento (dalle “dichiarazioni d’uso civico” ai “patti di sussidiarietà” e via discendo) che ne consentano l’affidamento a quelle comunità che sono in grado di valorizzarli con l’apporto della redditività civica che nasce dalle azioni di cura e dai progetti di gestione che ne conseguono.
Per costruire questa una nuova prospettiva è possibile un auspicio, che attualizzi l’appello che Marx ed Engels lanciarono nel 1848 nel loro Manifesto del partito comunista: dire forte “Benicomunisti di tutto il mondo, unitevi …”
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