Terra verde, guore rosso, terra verde
[Groenlandia. Prima parte]
Ghiaccio, fiordi e foche. Questa probabilmente fino a pochi giorni fa sarebbe stata la risposta dell’opinione pubblica alla domanda su cosa ci si può aspettare di trovare in Groenlandia. Oggi, a ribaltare questa prospettiva, si aggiungono due fondamentali risorse, in grado di smuovere da sole le strategie politiche internazionali: idrocarburi e terre rare. Ed è così che a quella prima risposta, di parola se ne deve aggiungere necessariamente un’altra, che la storia (o meglio, la nostra illusione da Fukuyama in poi che questa fosse finita) sembrava aver ormai cancellato dai nostri “radar politici”: imperialismo.
Un crocevia strategico
Quello tra la Groenlandia e il continente americano è un legame storico particolarmente forte. La popolazione inuit vive principalmente divisa tra i territori della Groenlandia, del Canada settentrionale e dell’Alaska, condividendo, con le dovute differenze locali, lingua, cultura e tradizioni.
Gli Stati uniti sono uno dei principali partner economici dell’isola, dove possiedono persino una base militare, la più settentrionale tra quelle sparse in giro per il mondo. Durante la Guerra fredda la Groenlandia ha costituito un tassello fondamentale del sistema di difesa occidentale contro l’Unione sovietica. Nel 1953 gli Usa ottennero dal governo danese, per il costo annuo di circa trecento milioni di dollari, la cessione di sovranità temporanea su un appezzamento di terra nel nord dell’isola, dove ancora oggi sorge la base aerea di Thule. Per permettere la costruzione dell’aeroporto, il governo danese impose il trasferimento forzato della popolazione inuit locale a circa cento chilometri più a nord, dove venne fondata la cittadina di Qaanaaq. Nonostante le iniziali proteste dei nativi, e il gravissimo incidente nucleare del gennaio 1968 (un B-52 precipitò nell’area, perdendo le quattro bombe all’idrogeno che trasportava, che furono danneggiate e contaminarono con materiale radioattivo una vasta porzione di territorio), la presenza militare americana viene ancora oggi percepita, anche in parte della sinistra groenladese, come una possibile garanzia della propria indipendenza.
Secondo le dichiarazioni rilasciate in una recente intervista a Il manifesto da Jane P. Lantz, attuale segretaria di Inuit Ataqatigiit, il partito indipendentista di sinistra alla guida del paese:
Noi abbiamo forti legami economici e commerciali con gli Usa, oltre alla presenza di una loro base militare nel nostro territorio e vogliamo continuare così. Vogliamo continuare a rafforzare tutte quelle relazioni di cooperazione che rispettino e difendano la sovranità della Groenlandia.
Ribandendo inoltre come:
Il destino del nostro paese lo decidiamo solo noi.
L’avvicinamento economico agli Stati Uniti appare quindi, persino per la sinistra socialista di Ia, preferibile al governo socialdemocratico di Copenaghen. Una scelta da prendere in considerazione per il futuro dell’isola.
Con il rigido, e sacrosanto, controllo ecologista sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali promosso dal governo di Nuuk, l’unica fonte di ricchezza possibile per la Groenlandia rimane la pesca, non in grado di sostenere economicamente una nazione in formazione che aspira a diventare indipendente.
Negli ultimi anni, con l’inaugurazione dell’aeroporto di Nuuk, si è aperta la possibilità di trasformare l’isola in una meta di vacanze, raddoppiando il numero di visitatori annuali sull’isola e attirando soprattutto quella nicchia di turisti interessati all’avventura e a vedere con i propri occhi i rischi del cambiamento climatico su un ecosistema fragile come quello artico. Si intravede tuttavia anche in Groenlandia, un territorio caratterizzato da pochissime infrastrutture (ci sono solo novanta chilometri di strade asfaltate) e una rete logistica estremamente precaria, il fantasma dell’overtourism.
Si pensi infine che il trenta per cento del Pil groenlandese è costituito dal sussidio annuo di circa tre miliardi e mezzo di corone garantito dal governo danese. Cosa succederà quando questo “cordone ombelicale” verrà reciso?
A far gola a Donald Trump è senza dubbio l’ambizione di utilizzare la Groenlandia come un enorme bacino minerario per alimentare l’industria tecnologica americana, sfruttando gli ampi giacimenti di terre rare dell’isola, a cui si aggiungono poi quelli di uranio e idrocarburi. Di notevole importanza è anche la posizione strategica della Groenlandia, crocevia fondamentale nell’ottica del controllo militare sul Mare glaciale artico, un “campo di battaglia” sul quale la Russia ha un ovvio vantaggio geografico.
Sono questi gli stessi motivi che, dopo le dichiarazioni del neoeletto presidente e la visita a Nuuk di Trump Jr., hanno spinto la Danimarca e l’Unione Europea ad alzare gli scudi contro le ingerenze d’oltreoceano. La sinistra socialdemocratica della premier danese Mette Frederiksen si è subito schierata contro le ingerenze della destra trumpista nel sogno indipendentista degli inuit, ma appare evidente il desiderio di difendere prima di tutto i propri interessi coloniali.
Geopolitica o imperialismo?
Sulla stampa europea sono proliferati articoli volti a spiegare l’importanza geopolitica della Groenlandia. Si denunciano le mire espansionistiche di Trump e, nel frattempo, si giustificano quelle danesi, nei fatti mettendo a tacere la voce dei nativi in virtù di un più grande disegno strategico internazionale. Si sdogana così il nostro imperialismo che, al contrario di quello del perfido Trump, diventa ovviamente “giusto”. Come dichiarato in una recente visita a Copenaghen dal ministro delle finanze groenlandese Erik Jensen di Simiut:
La Groenlandia non è in vendita, il nostro desiderio è diventare indipendenti un giorno, ma non intendiamo spostarci da un paese all’altro. Non siamo una palla di neve.
La sinistra sembra aver perso di vista quella che dovrebbe essere la soluzione vera alla crisi. Un dominio coloniale oppressivo non può esistere all’interno dell’Europa. Ad ogni popolo va riconosciuto il diritto alla libertà. Ma, soprattutto, l’unico modo per sottrarre la Groenlandia dalle mire espansionistiche di Trump, tentando di riportarla in un’orbita europea (l’isola non fa parte dell’Ue) è quello di garantire agli inuit il diritto di costruire una propria nazione, facendo sì che l’Unione europea stessa diventi garante di quel sostegno economico necessario alla loro indipendenza.
La moda della geopolitica domina invece le posizioni politiche assunte in questi ultimi giorni dalla sinistra europea, sdoganando, a volte inconsapevolmente, il vecchio mostro del colonialismo.
Ed è così che, mentre l’imperialismo striscia nuovamente fuori dal “cassonetto” della storia, nel quale non era forse mai entrato del tutto, dentro ci finisce l’antico faro di chi dovrebbe stare dalla parte degli ultimi, ovvero il principio di autodeterminazione dei popoli.
Risuona così come un monito il grido di battaglia lanciato dal primo ministro groenlandese Múte Bourup Egede:
Kalaallit Nunaat kalaallit pigaat! La Groenlandia appartiene ai groenlandesi!
Immagine di copertina: da X (@feyzaozdemir281): l’aereo di Trump all’aeroporto di Nuuk durante la visita di Donald Trump Jr.
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