Il 6 febbraio arriva nelle sale italiane The Brutalist, il nuovo film diretto da Brady Corbet, già noto per opere come Vox Lux e The Childhood of a Leader. Scritto insieme alla moglie Mona Festvold, il film è stato presentato con successo all’81ª Mostra del Cinema di Venezia, dove ha conquistato il Leone d’Argento per la miglior regia.
Prodotto da A24, The Brutalist è un film di tre ore e mezza che ha già collezionato numerosi riconoscimenti, tra cui tre Golden Globe (Miglior Film Drammatico, Miglior Regia e Miglior Attore Protagonista per Adrien Brody), ed è tra i favoriti per gli Oscar.
Cosa racconta il film
The Brutalist è un intenso dramma che esplora il viaggio di László Tóth, un architetto ebreo-ungherese formatosi al Bauhaus, sopravvissuto all’Olocausto e costretto ad emigrare negli Stati Uniti nel dopoguerra. Attraverso la sua passione per l’architettura modernista, László cerca di ricostruirsi una vita negli States, lottando contro il peso del suo passato traumatico e le difficoltà di adattarsi a una nuova cultura. Il film intreccia il suo percorso personale con temi universali come memoria, sacrificio e resilienza. Il suo primo sguardo agli Stati Uniti, attraverso la Statua della Libertà, è indimenticabile: sembra finalmente poter uscire dalla sua prigione personale per vedere la luce.
Tuttavia, in gran parte del film – caratterizzato da ampie inquadrature, paesaggi mozzafiato e spazi aperti – vediamo László vivere in miseria o in spazi angusti. Ma quanto è veramente libero? Sebbene il film metta in evidenza ciò che ha reso l’America unica durante l’ascesa del sogno americano si sofferma anche su ciò che László percepisce come immigrato: i bisbigli attorno a lui, le osservazioni razziste verso gli altri gruppi, e i double standards che favoriscono ingiustamente alcune persone a discapito di altre. Brady Corbet utilizza spezzoni di filmati d’archivio per segnare il passare degli anni e dei decenni, non solo per immergerci nell’atmosfera dell’epoca, ma anche per sottolineare una dura verità: il sogno americano è una costante illusione.
Il film ne riflette le contraddizioni, portando alla luce le sue ambiguità attraverso una narrazione intensa e stratificata. Per molti, l’America è la terra delle opportunità, dove libertà e successo sembrano a portata di mano per chi ha il coraggio e la volontà di perseguirli. Ma per chi vi giunge pieno di speranze, come László, il sogno può rivelare un lato oscuro. La storia pone una domanda cruciale: quanto siamo disposti a sacrificare della nostra identità per adattarci a un sistema che sembra richiedere l’abbandono delle differenze?
Una scommessa visiva
Il film presentato alla mostra del cinema di Venezia è stato per certi versi una scommessa, in un mondo dove la rappresentazione si fa sempre più breve e veloce, dove lo spettatore sembra essersi disabituato ai film di oltre tre ore. Eppure, la visione del film passa velocemente, l’opera riesce a catturare l’attenzione, per certi versi ad alienare, estraniare da tutto ciò che c’è attorno, e quando il film finisce ci si rende conto di aver vissuto un’esperienza. Nonostante la giovane carriera come regista, sono evidenti un gusto ben preciso e dei tratti stilistici riconoscibili in Brady Corbet. Lo vediamo ricorrere spesso ad un certo tipo di inquadratura, già visibile in Vox Lux: ampie riprese in soggettiva, che fanno sfrecciare lo spettatore lungo strade o binari. In The Brutalist, queste inquadrature ricorrono spesso come collante tra le sequenze o per sottolineare il passaggio del tempo, creando nello spettatore un effetto ipnotico. Guardando l’orizzonte, sembra che il tempo rallenti, ma spostando lo sguardo verso i bordi del fotogramma, si percepisce una velocità vertiginosa, come se tutto fosse fuori controllo. In questo modo, Corbet gioca con la relatività di tempo e velocità: anni che sembrano volare via in un attimo, mentre settimane possono sembrare infinite.
È un richiamo alla nostra impossibilità di fermare il progresso, l’invecchiamento e, infine, l’inevitabilità della morte. Queste sequenze servono principalmente a connettere le scene, ma rappresentano anche in modo straordinario il ritmo della vita, un tema ricorrente nella filmografia di Corbet. I suoi film spingono a riflettere su come si è arrivati nel punto in cui ci si trova, lasciandoci con la stessa domanda che probabilmente ci porremo più volte nella vita. Quasi ogni scena e ogni inquadratura propongono un’idea nuova o un’angolazione originale, trasformando quello che poteva essere un classico dramma lineare in un’opera d’arte visiva. Perfino i tagli più improvvisi sembrano studiati per spiazzare lo spettatore, spezzando quei momenti che potevano dar l’impressione di rilassare il ritmo. Non c’è un solo istante noioso, un’impresa notevole considerando la durata del film. Ecco forse perché la percezione del tempo risulta diversa: è il ritmo incessante a far sì che il tempo voli, trascinandovi in avanti come un treno in corsa. Ogni scena accende la curiosità, offrendo costantemente nuove idee artistiche e visive.
La fotografia di Lol Crawley è un elemento chiave che amplifica la narrazione del film, riflettendo l’estetica brutalista e i temi emotivi che lo attraversano. Il film è stato girato in pellicola 35 mm formato VistaVision, sia per ragioni, secondo Corbet, filologiche – il formato apparteneva all’epoca in cui è ambientato il film – sia perché permetteva di inquadrare «Un palazzo di sei piani da cima a fondo con un semplice obiettivo 50 mm, come con un volto umano». Le inquadrature ampie e prospettiche sottolineano il contrasto tra la monumentalità delle architetture e la fragilità dei personaggi, con toni cromatici che alternano freddo cemento e calore umano. L’uso di luci e ombre, spesso naturali, crea un’atmosfera che oscilla tra realismo e mistero, evocando emozioni profonde e tensioni sottili. Ogni immagine sembra studiata come un dipinto, con dettagli tattili come crepe nel cemento e riflessi metallici che arricchiscono l’esperienza visiva. La fotografia non è solo un supporto, ma una componente narrativa che trasforma ogni scena in un dialogo tra spazio, storia e personaggi.
Le interpretazioni di Brody, Pearce e Jones
László, interpretato magistralmente da Adrien Brody, è un uomo complesso e tormentato che porta sulle spalle il peso di un passato doloroso e di un presente pieno di contraddizioni. L’attore riesce a incarnare con straordinaria autenticità le sfaccettature di un personaggio che non è un eroe tradizionale, ma è un uomo profondamente umano, fatto di fragilità, lotte interiori e momenti di genio creativo. La sua interpretazione si colloca tra le più potenti della sua carriera, riuscendo a trasmettere emozioni che vanno dal dolore alla resilienza con una sensibilità unica. Brody ci restituisce un László che non si può giudicare a colpo d’occhio, perché ogni sua espressione e gesto raccontano una storia più grande, un’anima affascinante segnata dalla storia e dal suo tempo. Al fianco di Brody, Guy Pearce si distingue per un’interpretazione altrettanto memorabile nel ruolo del carismatico ma spietato Harrison. Pearce riesce a rendere il personaggio un perfetto emblema delle ambiguità e delle ombre del sogno americano: arrogante, manipolatore, eppure incredibilmente magnetico. La sua presenza domina ogni scena, incanalando un’energia che oscilla tra il grottesco e il disturbante, ma sempre con una consapevolezza che rende il personaggio tragicamente credibile. Harrison è il volto di un potere corrotto e cinico, e Pearce lo interpreta con un’intensità che lascia il segno. Felicity Jones, seppur introdotta nella seconda parte del film, si rivela un elemento fondamentale della narrazione. Nel ruolo di Erzsébet, una donna forte nonostante il suo corpo fragile segnato dall’osteoporosi, Jones dimostra una straordinaria profondità interpretativa. Il suo personaggio è il cuore pulsante emotivo della storia, un simbolo di resilienza e dignità, e Jones riesce a infondere in Erzsébet una forza interiore che trascende le sue sofferenze fisiche. La sua performance è un vero e proprio tour de force, che sottolinea il suo enorme potenziale come attrice e le conferisce uno spazio che riesce a sfruttare con maestria.
Massimalismo e minimalismo
The Brutalist si presenta come un’opera che racchiude la complessità di un grande romanzo, la provocazione di un’opera d’arte e la capacità di rivelare nuovi dettagli ad ogni visione, proprio come i nostri ricordi più profondi. È un film che invita a immergersi completamente nella sua vastità. In un’epoca in cui il futuro delle sale cinematografiche è incerto, The Brutalist richiede di essere vissuto sul grande schermo, idealmente in 70mm, formato scelto da Corbet per la distribuzione.
È un’opera che combina massimalismo e minimalismo: capace di osservare tanto i dettagli più intricati quanto le dimensioni titaniche che sfuggono ai mezzi tradizionali. Le interpretazioni sono intime e profonde, in netto contrasto con le strutture monumentali che dominano la vita dei personaggi. Lo scopo del film non sembra voler dare risposte ma molto su cui riflettere, lasciando allo spettatore il compito di completare il quadro attraverso la propria esperienza con quella dei personaggi e dei mondi che abitano. Alla fine, la lezione che emerge è chiara: conta di più dove arriviamo rispetto al viaggio che ci ha condotti lì. E dove Brady Corbet è arrivato con The Brutalist è senza dubbio la vetta del cinema contemporaneo. Questo film, destinato a durare nel tempo e a consolidare l’eredità artistica del suo creatore come un monumento architettonico, si presta ad essere il candidato numero uno ai prossimi Oscar.
Immagine di copertina: Adrien Brody interpreta László Tóth in The Brutalist (Copertina)
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