Gli applausi e l’antipatica simpatia della sala. L’untuosa captatio benevolentiae dei suoi interlocutori che fanno finta di intervistarlo. Il suo discorso, che gli esperti di marketing politico definirebbero uno stump speech, cioè il testo, sempre quello, la litania che si recita pedissequamente, ripetutamente, in campagna elettorale. La sua permanente campagna elettorale. Il solito Trump, come nelle passate performance a Davos. Il solito parterre di super potenti, l’ambiente che è il più congeniale al presidente dei diseredati. Solo che questa volta non è il Trump del primo mandato. È il presidente che sbruffoneggia sul successo senza precedenti – davvero? – della sua elezione e che ostenta sicurezza e potere e un grande desiderio di usarlo come vuole e contro chi vuole, a cominciare dal suo predecessore, per poi arrivare al suo nemico numero uno: l’Europa.
In un’intervista a Fox News, prima di collegarsi con Davos, si dice “triste nei confronti di Biden che non ha chiesto la grazia per se stesso” e non esclude “un’indagine nei suoi confronti”, e poi, in remoto con il club svizzero, lo mette sulla graticola, per la gioia dei ricchi e potenti in platea, definendo la sua amministrazione “un gruppo di gente totalmente inetta”. Si divertono, i papaveri di Davos, il pollice verso di fronte alla spettacolo gladiatorio di un presidente che si accinge a dare letteralmente il colpo di grazia al suo predecessore, uno spettacolo barbarico che dà la misura di una crisi veramente seria ai massimi vertici della tuttora prima potenza mondiale.
La crisi americana è squadernata di fronte al mondo, a cui si chiede, si pretende, di porre rimedio. La tracotanza dell’insediamento nella Rotunda di Capitol Hill, rivolta ai nemici interni sconfitti, è ripetuta pari pari di fronte alla platea mondiale. Se l’idea è quella d’investire in America, come invita perentoriamente a fare, non è che sia il posto più affidabile del mondo, vista la guerra civile che lo stesso Trump racconta, ancora in corso, con nemici da catturare e sbattere in prigione.
La voce lamentosa e fastidiosamente piatta è quella ormai entrata nelle orecchie di tutti, di chi fa la vittima per poi promettere vendetta. La parola ricorrente è unfair. Indebitata fino al collo, perché – dice – pessimamente gestita dopo la sua defenestrazione, perché è un colabrodo con l’immigrazione, perché asservita ai dogmi green, l’America ha un trattamento sleale, unfair, da parte dei partner commerciali, Cina e paesi asiatici, ma soprattutto gli ingrati alleati, europei.
La Ue ci tratta in modo sleale, con grandi tasse, molto sostanziali. Gli europei non prendono le nostre auto. Mettono dazi su cose che vogliamo fare: dazi non monetari, ma poi si aspettano di vendere le loro merci nel nostro Paese e hanno un attivo commerciale con noi di centinaia di miliardi di dollari.
Trump ce l’ha proprio con l’Europa, ancor più che con la Cina. Con Xi Jinping, gli affari si possono fare: Tik Tok insegna. Per non dire del principe saudita, Mohammed bin Salman, il primo leader al telefono dopo la sua elezione, che gli promette seicento miliardi di dollari di investimento negli Stati Uniti nei prossimi quattro anni. L’Europa? Incarna tutto ciò che il trumpismo detesta. Le regole, innanzitutto.
Ho molti amici in Europa, so che sono frustrati perché ci vuole molto tempo per approvare leggi e regolamenti.
Lo scontro era nell’aria, la guerra delle tariffe partirà immediatamente, se l’Europa non seguirà l’esempio del saudita e di Xi. A Bruxelles, le onde telluriche non scuotono solo i palazzi della Ue, ma anche il quartier generale della Nato. Il Trump che interviene a Davos è disposto a tutto, il deficit impone una forte accelerazione alla sua offensiva domestica e internazionale, se no la sua folle politica susciterà presto vere e proprie rivolte in casa, aggravando ulteriormente il quadro economico e sociale.
In retrospettiva la presenza di Giorgia Meloni alla cerimonia di insediamente di Trump, i suoi applausi a dir poco irrituali al discorso del neopresidnete, rende ancor più evidente, alla luce dell’intervento ascoltato a Davos, la lacerazione che ha già prodotto nel Vecchio continente il ritorno del tycoon alla Casa Bianca. L’Italia degli eredi del fascismo è di nuovo il paese del voltafaccia, dell’opportunismo di chi molla gli alleati per salire sul carro del vincitore. Con lei tutta l’accozzaglia dei sovranisti pronti a vendere la sovranità europea, ma anche quella dei propri paesi, a un personaggio che detesta l’Europa, la cultura europea, e considera il Vecchio continente alla stregua della Groenlandia, da annettere pezzo a pezzo. Eppure proprio questa arroganza non avrà forse l’effetto benefico di ridare ossigeno a quel che è ancora vivo dell’europeismo? La sua resilienza, nonostante le Meloni, gli Órban e le Le Pen, c’è.
il manifesto
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